Sagoma al Teatro Nuovo di Napoli | Recensione

Sagoma - Monologo per luce sola

Sagoma – Monologo per luce sola di Fabio Pisano, con Nando Paone e Matteo Biccari, per la regia di Davide Iodice, va in scena al Teatro Nuovo il 9 e il 10 dicembre. Il monologo desta subito l’attenzione del pubblico, tramite l’artificio del paradosso: il sipario non si apre, le luci del palcoscenico non si accendono.

All’inizio sembra essere uno scherzo, ma poi ci si rende conto che è tutto vero: la messinscena è cominciata. Il tecnico delle luci sta posizionando il riflettore, l’attore esce dalle quinte per fare delle prove e non si accorge di noi, perché, nel gioco della finzione, il pubblico fa ancora parte della sua immaginazione.

In Sagoma, Nando Paone è il solo interprete di un monologo meta-teatrale, riflessivo e poetico, interamente diegetico, perché narrazione e ragionamento coincidono, come l’attore e la persona.

Ne viene fuori una figura indistinta, che è se stessa e altro da sé. Ci prestiamo all’ascolto di pensieri, che paiono espressi distrattamente, con noncuranza, per mezzo di un borbottio ininterrotto, eppure esplorano profondità buie, il lato oscuro del teatro, che dietro la magia nasconde il mistero, nella commedia, la tragedia.

L’attore sogna di esser sagoma. Accompagnato sulla scena dal tecnico luci (Matteo Biccari), lo rende partecipe dei suoi dissidi interni, delle sue opinioni contraddittorie, e dei suoi capricci, ma non riceve alcuna risposta, o meglio, noi non possiamo udirla. Il tecnico comunica con gli spettatori solo attraverso il posizionamento luci.

A ognuno il suo ruolo: l’attore recita, il tecnico si adopera manualmente per la riuscita dell’esibizione. Entrambi sono spogliati dalle vesti di uomini comuni, scarnificati.

Sono strumenti prestati al fare artistico, alla buona riuscita performativa, vittime di un ingranaggio.

Sagomati, ma senza precisi contorni, colori chiari, né volti, attore e tecnico si presentano sospesi, uno in alto su una scala, l’altro sull’orlo del  proscenio, alla ricerca del controluce migliore.

Sagoma è un esperimento di teatro-terapia: l’attore entra sul palcoscenico buio e inizia i suoi sfoghi, le sue confessioni: «Io non voglio essere riconosciuto, voglio essere guardato, perché vedere e guardare non sono la stessa cosa».

Si tratta, però, anche di una terapia dal teatro, cioè una modalità libera e catartica di esprimere il dolore che si nasconde dietro la maschera.

Sagoma pare rievocare –  proprio nella struttura dell’opera, e nel lavoro non banale di decostruzione della scena – «la dimensione fantasmatica» dei teatranti d’immaginario pirandelliano.

Le «ombre rivelatrici» di Sei personaggi in cerca d’autore nascevano proprio dalla luce, quella stessa che, in Sagoma, assume tutta la densità di  un’assenza, ma pure pesa ed emoziona.

La sensazione che ci restituisce, però, non è di tedio, ma di liberazione, di rilassamento.

Avvolti in una coltre oscura, ci si sente protetti. Ci si può sbracare, ci si può esimere dal tenere la consueta postura da attento ascoltatore di una narrazione, osservatore analitico dei tratti del personaggio.

Non c’è nessun racconto, nessuna maschera. C’è una ricerca, cieca e ostinata.

In Sagoma, Nando Paone sul palco non esiste in quanto attore, c’è come persona, che si diverte a mettere alla prova la pazienza di un assennato lavoratore.

Sono soli, collaborano senza guardarsi bene negli occhi, senza distinguere ognuno le espressioni dell’altro

A un punto, il protagonista si rende conto di non essere il solo a vivere nell’ombra, e, dopo aver trovato, insieme al compagno, l’effetto di controluce perfetto, quello desiderato, con i «controcazzi», ecco che possono abbracciarsi, riscoprirsi uomini avvolti dall’ignoto.

Nella tetraggine dello sfondo si riesce, infine, a cogliere la vicinanza di due uomini che amano il proprio mestiere e lo svolgono con passione.

In Sagoma, è essenziale cogliere il riverbero, non il suono (non a caso le musiche sono quasi totalmente assenti). Non avere la pretesa di capire, di scrutare, ma semplicemente sentire, creare empatia con un viso anonimo, mai svelato.

Bisogna affidarsi al non-detto, non essere intimoriti dal fantasma e dal suo bisbiglio

Sagoma è una forma di teatro-paradosso, è uno spettacolo per chi vuole nascondersi, non esibirsi. È il contrario della performance, nell’era della performatività.

È un ritorno alle origini, all’umanità, perché «una storia senza volto è la storia di tutti».

Fonte dell’immagine: Ufficio stampa Teatro Nuovo

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A proposito di Chiara Aloia

Chiara Aloia nasce a Formia nel 1999. Laureata in Lettere moderne presso l’Università Federico II di Napoli, è attualmente studentessa di Filologia moderna.

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