Sergio del Prete ha portato sul palco del Teatro Civico 14 di Caserta Sconosciuto. In attesa di rinascita.
Ha raccolto molti applausi Sconosciuto. In attesa di rinascita, spettacolo scritto, diretto e interpretato da Sergio Del Prete e andato in scena al Teatro Civico 14 di Caserta sabato 26 e domenica 27 febbraio.
Sconosciuto, recensione
Sconosciuto. In attesa di rinascita è un lavoro intimo, profondo, riflessivo. Sergio Del Prete dimostra di avere non solo un’ottima penna ma di saper anche – insieme a Francesco Santagata, che cura le musiche, Carmine De Mizio, che si occupa delle scene e luci, al costumista Rosario Martone e all’aiuto regista Raffaele Ausiello – affrontare tematiche complesse attraverso un format semplice, affidato a pochi elementi.
A prima vista, infatti, quello che colpisce di Sconosciuto è la scenografia essenziale: la scena, buia, è illuminata soltanto da un quadrato a led posto al centro del palco, che segna lo spazio d’azione entro cui si muove ed è raccontata la vicenda. A varcarne la soglia è un uomo ben vestito – con giacca scura e cravatta rossa – che, dopo una corsa forsennata, si ritrova quasi inghiottito, intrappolato fra neon a luce intermittente. L’accesso all’interno del perimetro avviene come un parto, fra urla e lamenti convulsi: una volta dentro, quel non-luogo diventa una prigione che serra, con le sue sbarre invisibili, una vita non desiderata, trascorsa in una periferia in cui Dio non arriva, inchiodata alla rigidità dei ruoli, a stereotipi e preconcetti molto duri da scrostare, all’insegna della incomunicabilità familiare. La provincia è metaforicamente quel luogo dell’anima in cui ci sentiamo esclusi, non voluti, inadatti, inadeguati. Non uno spazio, ma un vizio dell’anima.
E così, quel (non-mitico) Edipo – accecato dalla paura di non poter superare i fantasmi, gli schemi e le aridità della realtà circostante – non può che riversare le proprie frustrazioni su quella vita spenta, che poteva essere e non è stata. Egli scava nel passato e vi ritrova, sepolta, la rivelazione che gli scombina l’esistenza (o, sarebbe meglio dire, lo porta a fare i conti con se stesso): da una banale discussione tra i suoi genitori, tra una madre adorata e un padre odiato – che si vorrebbe, simbolicamente, uccidere, per uccidere quel seme di provincia che si sa di avere dentro – viene a conoscenza del fatto che la madre, prima che lui nascesse, ha abortito. E allora: “Io potevo non esistere, potevo non nascere. Dove sarei stato? I miei pensieri, dove sarebbero stati?”.
Da un lato, un feto non nato, una rosa di potenzialità. Dall’altro, invece, un feto rabbioso di paura, nato vivo ma che si auto-percepisce come aborto: “Aborto sì tu, ma aborto so’ pure io”, afferma il personaggio interpretato da Sergio Del Prete. Aborto provvisorio, perché in cerca di conferma in un vizioso gioco di specchi: “Ci sono perché tu non ci sei stato? Ci sono perché mi avete voluto?”. Un flusso vulcanico, un dialogo aperto, un’invettiva vera e propria nei confronti del fratello che non è nato, incolpandolo di averlo ucciso nel momento della sua morte: un fratello, cioè, che non nascendo, lo costringe a nascere e a vivere una esistenza costellata da brutture, rabbie e paure e distante dalla bellezza: la bellezza delle sfumature, la bellezza della semplicità, la bellezza nascosta dentro se stessi.
L’anestetico per questo costante senso di inadeguatezza è l’amore a pagamento nei centri massaggi. In quelle fredde stanze con i tramonti stampati sui muri, Marta – donna, madre e moglie infelice – lo accoglie nei suoi abbracci, senza mai giudicarlo, e spronandolo alla bellezza, nonostante tutto. È Marta che – ai suoi orizzonti limitati e desolanti – sostituisce l’infinità del mare, la cui brezza è un sorriso (illusorio?) di speranza e bellezza, ci apre i polmoni e ci fa lanciare gli occhi oltre la paura. Un mare-madre, dove a nuotare però si è soli, con la paura che si fa sorriso. Anche perché, a volte “Bisognerebbe avere il coraggio dei ragazzi che si lanciano dagli scogli per tuffarsi ed essere accolti”. In fondo, è ciò che desideriamo tutti nella vita: essere accolti.
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ph Guido Mencari – ag Cubo