Il 27 e il 28 giugno, per il Campania Teatro Festival, va in scena al Politeama Smith & Wesson, un’opera teatrale scritta e diretta da Alessandro Baricco (aiuto regia Luoise D’Ostuni). Lo spettacolo, traduzione e adattamento francese di Lise Caillat, ci trasporta nella realtà lontana delle cascate del Niagara, grazie all’iperrealistica scenografia di Maggy Jacot.
Il sonoro a cura di Nicola Tescari e le luci di Tommaso Arosio aiutano a restituire fedelmente l’ambientazione. Scene e costumi sono realizzati da Les Ateleliers du Théâtre de Liège.
Sul palco Christophe Lambert, Laurent Caron, Lou Chauvain e Lolita Chammah interpretano eroi grotteschi impegnati in un’ambiziosa impresa, dal gusto miseramente e squisitamente umano.
Smith & Wesson, recensione dello spettacolo
Smith è un meteorologo svitato e irascibile – temperamento dovuto all’educazione troppo severa ricevuta dal padre – che si diletta in strampalate invenzioni. Wesson è un pescatore di uomini o di “sogni infranti”, conoscitore esperto di quello che si nasconde «sotto il culo» delle cascate.
I due in un primo momento sembrano vaneggiare a vuoto, intrattenendosi con discorsi astrusi, rinchiusi nella loro piccola stanza-casa, in condizioni misere e sudice. Il loro incontro si fa più interessante con l’arrivo improvviso di una giovanissima e carismatica giornalista: Rachel Green, in tutto il suo splendore, irrompe nelle loro vite per salvarli dalla deriva, afferrarli in volo. L’impresa avrà, però, un esito inaspettato.
Non è difficile entrare a far parte del loro piccolo universo, gremito di utopie e piacevoli illusioni, di storie recuperate dal glorioso passato. Smith e Wesson rappresentano una generazione figlia di padri che hanno compiuto imprese eroiche, su di loro grava il peso delle aspettative. Il timore di fallire incombe come una minaccia nel loro mondo ancora incantato.
Wesson non ha imparato a utilizzare le parole giuste per esprimersi, Smith gli suggerisce vocaboli eruditi: «guardi che le parole sono piccole macchine molto esatte». La dimensione individuale del primo è infantile, egli conserva un’innocente fantasia al punto da riuscire a sentire il rumore dei colpi dei suoi spari immaginari. Il secondo non riesce a immergersi appieno nella finzione del gioco: la sua pistola-giocattolo non funziona. Quel che importa è che entrambi vivono in uno stato di sospensione: Wesson va alla scoperta di cadaveri, come un bimbo fa la caccia al tesoro. Smith, che è una mente incompresa, ricorda più un adolescente dall’impeto ribelle, avido di novità ed esperienze, ma iroso e impaziente.
Rachel è l’unica che nutre ancora una speranza, a lei spetta il compito di prendere e riportare gli uomini a galla dall’abisso. Entusiasta e ambiziosa, spinta dal desiderio di fare successo e di riscattarsi dalla sua condizione subordinata di scrittrice donna, avanza una folle proposta ai due buoni a nulla. Ha bisogno delle conoscenze dell’uno – che siano vere o meno non importa – e dell’inventiva dell’altro. L’audace ragazza vuole provare un salto nel vuoto: gettarsi nella cascata non per suicidarsi, ma per sopravvivere, per ricordare, così, al mondo che esiste e ha qualcosa da raccontare. Sarà uno scoop sensazionale.
Il tema dell’avventurosa storia è ricostruito, infine, dalla voce narrante della Signora Higgins, finanziatrice del temerario progetto. Posta al centro di una grande scacchiera – resa abilmente dalla tridimensionalità dello scenario (sempre mobile e pieno di dettagli) – la ricca signora indossa gli abiti del Destino. Il monologo finale è una riflessione sull’immensità della natura dinanzi alla quale ogni azione umana è vana. Anche il più coraggioso dei mortali è costretto ad ammettere che la vita altro non è che un colpo a vuoto. Le azioni più ardimentose assumono valore per se stesse. Il nulla che resta è la sola luce che, nel buio dei fondali, può guidare verso la riva. L’approdo non è l’assoluta felicità, ma l’allegria delle «piccole cose», che come “ossi di seppia” rimangono ancorate a terra. Sono le unità minime dell’esistenza, quel modo di giacere con discrezione sulla terra, che ci consentono di custodire e non obliare l’identità di chi, per scelta o per sfortuna, ci abbandona.
Rachel è stata chiusa in una piccola botte per attraversare le acque e rimanere illesa – gli spettatori possono sentirne anche lo scroscio – ed è di questo spazio claustrofobico che ha timore, non della morte. Dietro il volto oscuro della paura si nasconde la propulsione vivificante per ogni spinta sognata e realizzata. In fondo tutti ci chiudiamo nel buio dei nostri tormenti e della nostra insoddisfazione, ma lì dentro, se sappiamo ascoltarla, c’è una musica dolce di carillon che può indicarci la direzione da seguire anche a occhi chiusi.
Alla fine chi rimane è tanto matto da riuscire a esaudire anche i desideri più strambi di chi non c’è più. Smith & Wesson se ne andranno in giro con una baracca di tiro a segno e faranno centro.
Immagine in evidenza: ufficio stampa