Tre modi per non morire di Montesano debutta in grande stile al Teatro Argentina di Roma. Toni Servillo ricorda a tutti che cosa è necessario preservare per continuare a definirsi “vivi”.
Lo scrittore e drammaturgo Giuseppe Montesano prova a risvegliare lettori e spettatori dall’avvilimento dei cuori causato dagli alfieri dello strapotere digitale e dalle agenzie del potere, che promettono continuamente un progresso miracoloso e in realtà affossano gli uomini in una vita arida e vuota.
E lo fa con un testo acuto, profondo, profondamente bello che passa da Baudelaire a Dante, da Dante ai Greci.
Tre modi per non morire. Tre modi per riscoprire, attraverso la parola, l’importanza del significato e del significante, l’importanza della vita vera e veramente vissuta, animata dal fuoco sapiente che arde e disintegra ma conduce al cospetto della verità.
Tre modi per non morire al Teatro Argentina
Toni Servillo ha la voce e la presenza scenica più adatta per dare corpo e spessore al testo di Montesano. La scenografia è quasi inesistente, ma è sufficiente il suo profilo, vestito di nero e senza null’altro.
«Monsieur Baudelaire, quando finirà la notte?», è la prima domanda che pone al pubblico, titolo della prima sezione del testo. Un pubblico, quello del debutto dello spettacolo all’Argentina, nel quale siede anche il sindaco di Roma Roberto Gualtieri; tutti più comodi sulle nuove poltrone appena inaugurate, ma punzecchiati ai fianchi da parole scomode che senza scrupolo ci ricordano che siamo individui semi vivi privi di anima.
«Ma quando finirà, Monsieur Baudelaire, quando finirà questa notte in cui l’Immaginazione, la regina che ha creato il mondo e ora lo deve governare, è imprigionata nella Noia?»
«La notte finirà quando la poesia non cambierà più la vita di uno solo ma la vita di tutti. Finirà quando cominceremo a trasformare noi stessi per vivere senza paura. La notte finirà quando saremo smarriti nella selva oscura ma cercheremo ancora le stelle.»
La notte in cui gli uomini sono sprofondati finirà quando si ricomincerà a credere, come facevano i Greci, che bellezza e poesia siano le uniche consigliere utili a innescare quella scintilla che annienta la paura e alimenta il fuoco della vita e della conoscenza. Tre modi per non morire sono quelli suggeriti da Baudelaire, da Dante e dai Greci.
Da Baudelaire a Dante
«È dalla disfatta che zampilla il furore paziente che chiedo alla poesia». La disfatta per antonomasia è quella di Dante che nel mezzo del cammin si ritrova per una selva oscura. Il suo smarrimento è lo smarrimento di tutti.
Dante è everyman, disse Ezra Pound, per cui «[…] il suo viaggio diviene il simbolo della lotta dell’umanità nell’ascesa fuor dall’ignoranza verso la chiara luce della filosofia». Dante è ogni uomo e, con ogni uomo e come ogni uomo, piange, implora, teme, brama, spera, scende agli Inferi e poi risale, per riveder le stelle. E Montesano vuole ricordare a tutti che la vita è pensare alle stelle nel mezzo della selva oscura.
Dal primo al terzo canto della Divina Commedia, Servillo pone l’accento sugli ignavi. A questi cristiani ipocriti, relegati all’Inferno, il cristianissimo Dante preferisce i pagani che hanno vissuto con ardore. Gli ignavi attraversano i secoli e rimbalzano fino a noi, come tutte le figure descritte da Montesano. E loro sono «quelli che pensano i pensieri che pensano tutti»; non sono individui, ma una massa informe. Sono quelli che hanno perso la vita per paura delle passoni, della speranza, dell’amore e dell’odio.
Parole trionfanti, infatti, Dante riserva a un pagano la cui colpa è quella di aver voluto volere, volere, fortissimamente voler conoscere: Ulisse. Un uomo tutto intero che mette a rischio la propria vita per inseguire il desiderio di cambiamento e di conoscenza, che si spinge «in fondo all’ignoto per trovare il nuovo».
Dante, commentato da Montesano, ribalta l’Odissea e ritrae un Ulisse moderno che non torna a casa, che si divincola dalle catene del dovere e del dovuto, per continuare a essere fuoco. È l’uomo che Dante avrebbe voluto essere e non è stato. È l’uomo che ognuno dovrebbe essere.
E poi l’amore, nel mezzo dell’Inferno, l’amore che è il contrario della paura, l’amore che non è mai un peccato, perché gli unici peccati sono quelli contro l’amore. Servillo avanza sul palco e alza il tono, perché si innalza la materia narrata. Siamo nel Paradiso e Dante invoca Apollo, il dio divoratore, il dio della poesia; la geniale mente dantesca, come quella di Ulisse, è in grado di vedere un orizzonte ampio e sconfinato, come era quello dei Greci.
Da Dante ai Greci
Ampio e aperto come non sarà mai più. Accogliente, curioso, metamorfico, che – almeno a teatro – non conosce il bene e non conosce il male; che non ha paura del contatto, dello scontro, del dramma, della distruzione e dell’autodistruzione. Il teatro è il luogo della catarsi e gli spettatori – tutti, ricchi, poveri, servi, padroni, uomini, donne – messi di fronte ai drammi più atroci della loro vita, ne rivivono l’esperienza, ne comprendono le radici e attraverso la conoscenza si purificano e si liberano dal male. Nulla spaventa la mente dei Greci, perché sono abitati dal fuoco sapiente che non teme la verità. Il loro è un pensiero logico ed erotico, mosso da Eros che muove il sole e le altre stelle.
Noi, impoveriti, inariditi, piccoli, imbambolati in una caverna platonica davanti a schermi che proiettano ombre che crediamo siano vere, così dovremmo vivere. Amore e bellezza sono le sole vie che portano al bene. Altrimenti «Moriremo per ciò per cui abbiamo creduto di vivere».
Tre modi per non morire di Giuseppe Montesano, con Toni Servillo. Una produzione Piccolo Teatro di Milano.