Vinicio Capossela a Napoli, recensione del concerto
Il 12 ottobre alle ore 21 si apre il palcoscenico del teatro Augusteo: una voce dall’altoparlante ci augura la buonanotte, sulla scena un divano rosso. Così, dormienti e stralunati, possiamo goderci il sogno ad occhi aperti di un concerto in grado di risvegliare l’immaginario, e mettere a tacere l’inutile vociferare e il turpiloquio (linguaggi privilegiati dell’attuale rappresentanza politica).
CON I TASTI CHE CI ABBIAMO – TREDICI CANZONI URGENTI IN TEATRO è il tour con cui Vinicio Capossela presenta, nei principali teatri italiani, l’ultimo lavoro discografico Tredici canzoni urgenti, uscito ad aprile e vincitore della prestigiosa Targa Tenco 2023, nella categoria Miglior album in assoluto.
Ad accompagnare Vinicio Capossela sul palco, Andrea Lamacchia al contrabbasso, Piero Perelli alla batteria, Alessandro “Asso” Stefana alla chitarra, Raffaele Tiseo al violino, Daniela Savoldi al violoncello, Michele Vignali al sassofono.
Non manca la presenza di ospiti speciali: Andrea Tartaglia, amico e collaboratore artistico di Vinicio, presenza carismatica e immancabile allo Sponz Fest, e, con piacevole sorpresa per il pubblico, Daniele Sepe, sassofonista e compositore, storico compagno e militante.
Vinicio Capossela crea sul palco il suo archibugio di parole e visioni, nel dormiveglia ci orienta con la sua staffetta, con i tasti rotti ci trafigge l’anima, e li trasforma in stetoscopi per ascoltare i battiti
Vinicio Capossela a Napoli
Intimista, versatile, istrionico, si potrebbero schierare in campo una lunga sfilza di aggettivi per Vinicio Capossela. Con Tredici canzoni urgenti, l’artista decide, però, di abbandonare, per un momento, allegorie e mitologia, e di dedicarsi a un percorso di destrutturazione totale, che coinvolge anche il suo complesso e indefinito mondo, e atterrare, invece, su questo, in cui a dominare e a fare da padrona c’è la follia.
Siamo esseri incapaci di osservare la cruda realtà, siamo ormai troppo annichiliti, e lontani dal nostro io, e Vinicio sembra aver aperto gli occhi su questo avvilente scenario. Quindi, come Astolfo, che parte per andare ad esplorare la Luna, il cantautore ci trasporta in un lucidissimo Cosmo, abitato da mostri politici , economici, sentimentali e tragici, eppure, al contempo, romantici.
La semplificazione – o meglio, la scarnificazione – artistica di Capossela consiste nell’assumere il ruolo gravoso di un traghettatore di coscienze, che ammira, insegue e fugge la madre Luna, l’unico satellite naturale capace di risvegliare l’immaginazione.
“Potere all’immaginazione”, citava uno slogan durante le manifestazioni del ‘68, e Vinicio lo urla così forte sulla scena, da farsi sentire perfino sulla Luna.
Il palcoscenico diventa un quadro in movimento, una tenda dove potersi rifugiare. I protagonisti di questo dipinto itinerante ci invitano a partecipare, e a svegliarci dalla nostra condizione privilegiata e menzognera, a rinunciare alla comodità del nostro divano.
Nel quotidiano, siamo bombardati da quantitativi enormi di informazioni e intrattenimento, allora Vinicio Capossela e Andrea Tartaglia si servono della potenza disinvolta del Reggae, per far precipitare qualsiasi tentazione di confort stereotipato, e utilizzano, invece, l’interazione, per creare una dimensione seducente e penzolante, come la Luna. Trasformano il teatro in una circonferenza, protetta e bianca di purezza, nella quale può venire fuori l’espressione di un’umanità da tempo dimenticata, e le nostre natiche possono balzare in piedi dalla sedia, a tempo con il beat.
Dalla ricerca e constatazione dell’assurdo, arriva la rivolta, che prende forza dall’amore, soprattutto da quello disgraziato, che si prova, con intensità maggiore, di fronte alla consapevolezza dei propri limiti.
Il cantautore eclettico e multiforme mette in subbuglio il teatro Augusteo, al punto che il pubblico freme sulle poltrone, già sulle prime note del brano d’apertura. Sul divano occidentale, tutti sediamo comodamente, come in sala, nel ruolo di spettatori inermi, ma Vinicio indossa l’elmetto verde, accompagnato da Andrea Tartaglia, che si dimena e saltella per schivare i colpi. I due artisti si arruolano insieme in un caotico canto, mettendoci in prima persona la faccia, alzando i deretani, per far sentire la propria voce, tra la folla assopita, e indurla all’azione concreta. Con allegria e scherno, i due amici iniziano a compiere la loro impresa di coscientizzazione.
Il tono satirico e beffardo esplode definitivamente con il secondo pezzo. A partire da una formula, che si potrebbe definire di mercato, o da un motto, che designa ormai uno stile di vita e un nuovo approccio ai problemi del quotidiano, Capossela realizza una canzone dai toni inquieti e comici, trasformando uno slogan in un mantra ripugnante: All you can eat. «Se non conta più studiare e non conta più sapere», nessuno sforzo ha più valore nella realtà contemporanea, che si presenta come una «terra dell’abbastanza», un ammasso di prodotti da mercificare, realizzati con lo scopo preciso di generare insoddisfazione.
Vinicio Capossela – da pochissimo proclamato anche dottore, con una laurea honoris causa, dall’Università Orientale di Napoli – non può sottrarsi all’esegesi del testo, ed è ora costretto ad accompagnare l’esecuzione dei suoi brani con una breve lectio, per mantenere alto il tono e il livello intellettuale della performance.
Così, prima di eseguire La parte del torto, una delle canzoni più importanti e ricche di invettiva, ci svela il motore che è alla base di questo testo, il messaggio civile che cela, e neanche così bene, perché in fondo le parole parlano esplicitamente,e finalmente.
Siamo fieri di trovarci di fronte a un artista impavido, intransigente, dalla parte dell’opposizione, che davanti a un teatro gremito di gente, afferma senza timore: «se la politica è diventata uno spettacolo, lo spettacolo deve diventare politico. Se – riprendendo Bertolt Brecht – finora ci siamo seduti dalla parte del torto, dal lato degli oppressi, degli ultimi, ora non bisogna aver paura di affermare che i dirigenti politici sguazzano nel torto, e non hanno nulla a che vedere con il torto brechtiano, di cui ingiuriosamente si sono riempiti la bocca».
Man mano il registro si fa più serioso e impegnato, se fino a questo momento era lecito ancora scherzare e ironizzare sullo stato attuale delle cose, è adesso importante essere in tanti e unire le voci, contro un governo razzista e sessista, sostenitore della guerra e delle armi.
Si cambia ancora cappello, dall’elmetto al berretto da marinaio, al copricapo da pirata, per cantare Dalla parte di Spessotto, dalla parte di chi non si adegua, di chi è al di fuori di ogni convenzione, di chi ha il coraggio di violare le regole, quando queste diventano oltraggi ai diritti umani. Non possiamo stare zitti, se farlo equivarrebbe a mentire, a renderci complici, perché «siamo tutti coinvolti».
Vinicio Capossela si serve di questo tour nei teatri, e in generale della poetica di questo suo nuovo album, per compiere un passaggio di testimone. La sua è un’opera di coscienza, senza alcun intento didascalico. Accende delle lampadine – come quelle che, sul palcoscenico, incorniciano il gruppo musicale – nelle menti di chi ascolta: piccoli fari luminescenti, che servono a orientare i ciechi.
Così veniamo a conoscenza che, prima ancora dell’illuminotecnica, dei media e della televisione, c’era la staffetta. Sperimentando anche nella metrica, e, sempre rinnovandosi, il poliedrico cantautore, scrive una canzone che è una lista di nomi, quelli delle partigiane: donne giovani e giovanissime impegnate nella lotta per la Liberazione. La canzone Staffette in bicicletta racconta la Storia, punta l’occhio di bue su una delle tante cosiddette “storie minori” di Resistenza.
Quando fuori tutto sembra disintegrarsi e morire, e l’odore dei cadaveri in putrefazione sovrasta quello delle rose in fiore, ogni forma di bene diventa più rara, ogni amore una prova di resistenza.
Mentre la guerra infuria a Troia, l’unico luogo superstite, dove è possibile creare intimità e deporre le armi, è la tenda di Achille. A partire da un’immagine cardine dell’Iliade, Vinicio costruisce il suo riparo, il suo Bene rifugio, saccheggiando l’espressione dalla terminologia bancaria, volontariamente infamandola – «i beni rifugi sono investimenti che offrono pochi rendimenti, ma mettono al riparo dalle incertezze» -, e invita il suo pubblico ad andare alla ricerca del proprio. Ecco che ci si accorge quante poche siano le cose che hanno un reale valore per la nostra esistenza: la «schiena bipartita» della persona amata, il risveglio su un dolce talamo, dopo una notte d’amore.
L’amore è rivoluzione, solo se ci si lascia sconvolgere completamente, se il travolgimento tocca picchi di magia, e i sensi producono segni indecifrabili. Vinicio, parlando piano, ci suggerisce di uscire fuori dalla nostra gabbia di specchi, dall’inconscia e timorosa visione egoistica dei sentimenti e dei rapporti, di aprirci al cambiamento, e «trasformarci nella muta». Forse non c’è più tempo per «nascondersi negli angoli», «per dire e non dire», è tempo di urlare, di squarciare il petto per mostrarsi, e visceralmente tradirsi, per scoprirsi diversi e imprevisti.
«Sono stati i padri? È stato il sacrificio?» La cattiva educazione ci ha portato dove siamo, a confondere ancora la cura con il possesso, la gelosia con l’affetto, il romanticismo con la repressione e il controllo. Tra i numerosi temi attraversati durante questo concerto – che sembra durare un tempo indefinito, sospeso al di là delle coordinate spazio-temporali -, non possono mancare l’abuso e la violenza, l’urgenza che questi orrori richiedono, il bisogno esasperato di un megafono, e quale strumento più della musica può offrirglielo.
La grandezza dell’anima di un artista si misura anche attraverso la sua capacità di conservare intatta la sua innocenza. Vinicio Capossela sul palcoscenico gioca, come un infante salta in tutte le pozzanghere che trova, litiga con l’asse del microfono, non riesce a stare fermo al piano, indossa le maschere al contrario. Se condanna lo stato di Minorità a cui vengono relegati i carcerati, il loro «ridursi a pipì e pupù», gioisce, invece, alla vista dei bambini, che ancora si buttano con i piedi nella pozzanghera per fare «cha cha chaf», al contrario degli adulti, che la scavalcano o, peggio, fanno il giro attorno.
Se nell’Europa occidentale possiamo ancora stare seduti sul divano, e «sorvolare sui conflitti e sulla storia», in Ucraina ai bambini non è più consentito vivere la loro infanzia, giocare a nascondino, bagnarsi nelle pozzanghere, correre a cielo aperto, senza dover cercare asilo. Il loro gioco si trasforma in una crociata, tremendamente triste e scoraggiata. La crociata dei bambini è, in realtà, una pesante croce, che l’intera umanità, in questo preciso momento storico, dovrebbe portare responsabilmente sulle spalle, sentendone tutto il peso.
Il mondo ha perso il senno, o forse non l’ha mai avuto, perché si è nascosto sulla Luna, – Ariosto lo sa, Astolfo c’è stato, lo ha visto con i suoi occhi – e «sulla Terra non è rimasta che follia». Questo spiega molte cose, ma sicuramente non le giustifica. La follia può assumere le forme più disparate, può tradursi in atto creativo, esprimersi in parole e, attraverso il verbo, seminare, per salvare ancora qualcosa o qualcuno. Vinicio lo sa, lo ha scoperto tempo fa, ma probabilmente il suo cuore lo sentiva da sempre.
Il pubblico seduto in sala non può che provare compassione – compatire, da compăti (comp. di con- e pati «patire»): «sopportare, soffrire insieme» -, e Ariosto Governatore è una canzone che fa questo effetto. La nostra è una ferita aperta, e per quanto il sangue possa convertirsi in una cascata di lacrime, di fronte all’arte che supera i suoi limiti, trasformandoli in possibilità, là fuori, nella cosiddetta vita reale, il sangue non smetterà di scorrere.
Noi, artisti e non, gente comune e poveri cristi, altro strumento non abbiamo che l’amore. Ma Che coss’è l’amor? Vinicio racconta di un’anziana signora che un giorno ha risposto: un ergastolo. Capossela – sempre dalla parte dei reietti – non lo sa, e allora prova a «chiederlo al vento» e poi, senza preoccuparsi di ricevere una risposta, ci si tuffa «con dignità da Re».
Vinicio Capossela ha il cuore scisso: da una parte la gratitudine, dall’altra la nostalgia, questo lo rende più vicino di quanto si possa immaginare a tutti i poveri cristi della Terra. «La vita è un viaggio – afferma – pieno di incontri e di abbandoni, di scoperte e di ricordi. Si può essere grati alla vita per i suoi infiniti regali, oppure si può vivere immersi nella memoria dei doni ricevuti in passato, ma la gratitudine è meglio». Allora sarà ancora possibile fare del tempo presente Il tempo dei regali, se si rammenta a sé stessi, ogni giorno, di essere Uomini vivi e di «lassare sta’» la tristezza di sto’ «core ‘ngrato».
Riuniti sotto il palco, per ascoltare ognuno i battiti dell’altro, cantiamo all’unisono Con i tasti che ci abbiamo, augurandoci di suonare con quelli, appena fuori dal teatro, per rendere questo mondo ancora un posto ospitale, dove non sia impossibile sognare.
Fonte immagine: Ufficio stampa