Dal primo libro dell’Eneide di Virgilio si legge: «[…] subito le nubi strappano il cielo ed il giorno/dagli occhi dei Teucri; nera sul mare sovrasta la notte.(vv. 88-89) […] Si spaccano i remi, poi si rovescia la prora ed offre il fianco/alle onde, l’insegue un monte spezzato con la (sua) massa d’acqua»(vv. 104-105). Dopo l’intervento di Nettuno che «placa il gonfio mare», Enea e i suoi compagni raggiungono i lidi pacifici: «[…] l’isola crea/un porto con la barriera dei fianchi, su cui ogni onda/dall’alto si grange e si scinde in seni appartati» (vv.159-161).
Nel primo esempio, il mare in tempesta è una forza contro cui l’uomo non può fare nulla. Il mare, nel testo latino, è una forza invincibile causata da un dio e da un altro dio controllata. Diventa, in sostanza, il luogo di una battaglia, il luogo della storia guardato da dentro o di lato, come i quadri di Hasui Kawase che sembrano delle poesie sul mare. E ancora l’onda di lato di Katsushika Hokusai, o la vista dall’alto, alla maniera di Paul Gauguin, o da dentro, alla maniera di Peder Balke, o di fronte, alla maniera di Shoda Koho. Il mare in tempesta descritto da Virgilio non sembra una tempesta di Emil Nolde, o l’onda di Hokusai? E “i seni appartati” non fanno pensare a L’onda di Gauguin?
In poesia il mare è il deuteragonista e l’antagonista insieme, o lo sfondo bellico entro cui la storia di un osservatore si compie. Nelle poesie sul mare, l’orizzonte marino è una costante in agguato che non solo ricama sullo sgomento, ma lo rievoca. Lo sgomento nasce dalla meraviglia di quella “natura” accompagnata dalla possibilità di annegare nella memoria. In Mare al mattino di Konstantinos Kavafis il mare, ad esempio, è fotografato, nella prima stanza, in un momento di “piena luce” nei toni azzurri e gialli. Nella stanza successiva sbucano lo sgomento e l’illusione «di non vedere anche qui le mie fantasie,/i miei ricordi, le visioni del piacere».
Per quanto il mare sia custode dei silenzi, è anche il luogo delle riflessioni irreversibili. Gli “stati del mare”, le sue onde “mormorano” nel silenzio come una cassa di risonanza. Un esempio è Al di là di Fernando Pessoa: «Guardo il mare ondeggiare/e un leggero timore//prende in me il colore/di voler avere/una cosa migliore/di quanto sia vivere». Il mare, però, è anche uno “specchio” che riflette due abissi segreti svelati dall’ unione dell’ «infinito svolgersi dell’onda», alla maniera di Charles Baudelaire in L’uomo e il mare. E tra questi segreti di due «implacabili fratelli» emerge anche l’ «amore/per la strage e la morte».
In ‘O mare di Eduardo De Filippo, invece, l’immagine del mare sembra ricamata sulla incontrollabilità di un uomo che di notte lotta contro se stesso: «è caparbio,/’mperruso,/cucciuto» e «caccia n’ata vota/e s’aiuta c’’a capa/’e spalle/’e bracce/ch’’e piede/e cu ‘e ddenocchie/e ride/e chiane/pecché vulesse ‘o spazio pé sfucà…». Qui non c’è l’orizzonte e lo sgomento che rimbomba alla vista delle onde. C’è l’imprevedibilità degli stati umani contro cui non bisogna rassegnarsi, ma accettarli come un fatto naturalissimo. «‘O mare è mmare,/e nun ‘o sape ca te fa paura». Ecco la sintesi tra la natura e l’inconsapevolezza tutta umana.
Nella letteratura giapponese, invece, il mare può essere una splendida vista allegorica. E’ il caso del componimento dell’ imperatore Yūryaku (è probabile che abbia governato nella seconda metà del V sec. d. C.) A Yamato: «A Yamato,/son tanti i monti/ma più di tutti bello svetta/il celeste Kaguyama./E quando vi ascendo/Per guardar tutto il paese,/dalla piana/ s’alzano spire di fumo,/e dal mare/si librano i gabbiani./Che splendido paese,/Akitsushima,/la terra di Yamato». Proprio i gabbiani che «si librano» dal mare rappresentano gli spiriti dell’aldilà che solo l’imperatore può vedere. E ancora un haiku di Ikenishi Gonsui: «C’è una meta/per il vento d’inverno:/il rumore del mare». L’inverno è l’allegoria di una vita quasi giunta al termine che va oltre, verso il mare, simbolo dell’infinito.
Il mare, quindi, può essere il luogo fisico di una battaglia e il ricordo insieme, o uno specchio. La metafora del mare, però, va oltre l’ “infinito”, arriva ad essere il “vuoto”. In questo modo si ricrea il carattere di una navigazione esistenziale. O meglio di un naufragio. Si potrebbero fare i nomi di Montale o di Ungaretti, o considerare altre poesie sul mare. Ma un caso interessante è la simbologia polisemica del mare in Carlo Raimondo Michelstaedter: «E giù: alle coste in seno accende il sole/bianchi paesi intorno ai campanili/e giù nel mare bianche vele erranti/alla ventura»(Amico mi circonda il vasto mare). L’immagine è “verticale”. Dal sole, luminoso contrasto della coscienza, al mare, all’abisso, e quindi al vuoto. Dall’alto alla “profondità”. Il «vasto mare» è il fondo da cui interrogare la vita e chiedere «la vita/la vita della mia forza selvaggia/perch’io plasmi il mio mondo e perché il sole/di me possa narrar l’ombra e le luci -/la vita che mi dia pace sicura/nella pienezza dell’essere». Qui c’è la “navigazione” illusoria «del possesso di sé»[1], ma altrove la vista più vivida del vuoto: «Anche il mare è deserto senza vita,/arido triste fermo affaticato» (Onda per onda).
[1] Antonello Perli, Oltre il deserto: poetica e teoretica di Michelstaedter, Giorgio Pazzi Editore, 2009, p. 65.
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