Progetto Turbanti, fra integrazione e solidarietà femminile

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Ci sono iniziative che inducono l’anima e il cuore a sorridere. Ci sono idee così innovative che commuovono e fanno riflettere. Una di queste è il “Progetto Turbantidell’ospedale Santa Maria Annunziata di Ponte a Niccheri a Firenze.

Il “Progetto Turbanti” è un laboratorio di realizzazione di copricapo africani tradizionali che si svolge nel day hospital oncologico a cui partecipano donne rimaste calve a causa della chemioterapia. Questo progetto è gestito da donne provenienti dall’Africa sub sahariana del gruppo di sartoria sociale Bazin.

Nato circa due anni fa da un’idea del reparto di psiconcologia della Ausl Toscana centro diretto da Lucia Caligiani, rientra nell’ambito della riabilitazione psicologica del dipartimento di oncologia coordinato da Luisa Fioretto. Grazie alla collaborazione con Avo Firenze ODV (Associazione Volontari Ospedalieri), che finanzia anche l’iniziativa “Diversamente belle”, “Progetto Turbanti” è ormai un appuntamento atteso dalle pazienti e dalle insegnanti che ogni anno si danno appuntamento per partecipare a quattro lezioni.

Ed è proprio durante questi momenti insieme che le donne malate incontrano le donne africane altrettanto sottoposte alla pressione dell’integrazione e della diversità: la femminilità e il desiderio di ri-vedersi affascinanti e piacenti in un mondo dove la calvizie dovuta alla malattia non è sinonimo di bellezza, si confronta con la volontà – spesso coincidente con il timore – di mostrare con fierezza e orgoglio le proprie tradizioni e cultura, che passano anche da un simbolo come il turbante.

Il “Progetto Turbanti”: rinascere dopo la chemioterapia con forza, rivalutando la propria bellezza

Durante l’epoca coloniale e la schiavitù, la testa delle donne africane veniva rasata. Non c’erano né  femminilità né identità: la mancanza di tali valori è la stessa delle donne malate di tumore e che si sottopongono alla chemioterapia. È solo alla fine degli anni ’60 che il turbante divenne un simbolo identitario perché distintivo di una bellezza in antitesi con la femminilità delle donne bianche. Inizialmente simbolo offensivo nato dal razzismo e dalla supremazia bianca, è poi diventato forte espressione dell’identità del popolo africano, che oggi condivide con le donne malate di tumore una simbologia che nel dolore del passato trova la sua massima rappresentazione.

Ritornare a guardarsi allo specchio e ritornare ad apprezzarsi, prima ancora che lo facciano gli altri, è l’obiettivo di un lungo e doloroso percorso che sconvolge completamente l’interiorità di ognuna, schiava dei pregiudizi di una società diversa dalla propria o della malattia.

Il turbante, dal persiano dūlband   (in turco è tülbent), è un copricapo in seta, lana o cotone che si avvolge intorno al capo e che nella cultura africana indica forza, fierezza e bellezza. Sono proprio queste le parole chiave di un’iniziativa che coinvolge le donne di altra provenienza e che rappresenta anche un’importante occasione per parlare di prevenzione.

Le donne africane, infatti, come tutti i migranti, poco inclini a sottoporsi a screening e cure preventive oncologiche, dialogando con altre donne, sopravvissute alla malattia anche spesso grazie a controlli di routine, comprendono quanto un ospedale possa essere un luogo di cura, ma soprattutto di salvezza e di rinascita.

Infatti, la salvezza delle donne sono, molto spesso, altre donne. E attraverso il doecking, la tecnica di avvolgere e annodare ad arte una striscia di tessuto, si intrecciano sofferenze e speranze in un unico nodo, quello della rinascita e della condivisione.

Fonte Pixabay

Eleonora Vitale

 

A proposito di Eleonora Vitale

Nata a Napoli il 29 luglio 1988, conduce studi classici fino alla laurea in Filologia, Letterature e Civiltà del Mondo Antico. Da sempre impegnata nella formazione di bambini e ragazzi, adora la carta riciclata e le foto vintage, ama viaggiare, scrivere racconti, preparare dolci, dipingere e leggere, soprattutto testi della letteratura classica e mediorientale.

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